Brani tratti dal libro "I luoghi e la polvere"
La facciata di una casa è come il volto di una persona. Sorridente, triste, venato di rughe, screpolato. Il tempo ha depositato sulla sua superficie il peso dei suoi anni. Dalla sagoma di gronda, da cui parte il tetto, alle modanature intorno alle finestre, all’intonaco, tutto si consuma e si concentra in un attimo bloccato dal tempo. La luce del mattino, radente, fa affiorare particolari che verso sera si affievoliscono.
Un luogo non è immortale e non è, come invece un quadro, qualcosa di stabile nel tempo. La sua bellezza si modifica nel corso delle stagioni, il suo legame con tutto ciò che lo circonda è molto forte.
In questo mondo, attento solo alla riconoscibilità di quello che si vede, si pensa che, indipendentemente dagli accadimenti, un luogo resti lo stesso. Ma non è vero. L’aura che lo circonda è determinata da un insieme di elementi.
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Certe case abbandonate, con i muri avvolti dalla muffa e dai licheni, i soffitti in parte sfondati, conservano un’anima che è la loro vita. L’incuria del tempo le ha trasformate in luoghi che sprigionano un fascino irresistibile. Probabilmente, se fossero in ordine, non sarebbero altrettanto misteriosamente incantate. Spesso questa è un’illusione. Davanti a una rovina le persone esclamano meraviglia e pensano quanto sarebbe bella se fosse restaurata, non capendo che la bellezza di quel luogo è data proprio dal suo essere in rovina. Non sempre il passato splendente costituisce il suo incanto. Ci sono luoghi anonimi che diventano luminosi proprio per il loro stato di abbandono.
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Esistono in città, nei paesi, nelle campagne, “rovine” semplici, non necessariamente nobili. Cascine abbandonate, un muro senza aperture, uno spiazzo solitario con una fabbrica dismessa, una vecchia ciminiera diroccata, una strada che non finisce, chiese, mausolei, tumuli lasciati al loro destino, attraversati dal tempo. Luoghi che apparentemente non dicono nulla di più della loro solitudine e del loro abbandono in cui il motivo della loro condizione non si legge più tra le pieghe dell’architettura. Le ferite, se mai ci sono state, non mostrano la loro origine.
Troviamo queste rovine dappertutto nel mondo sparse tra le nuove costruzioni, o isolate e lontane.
Quello che colpisce è la tranquillità, la pacatezza. Non servono più a nulla, non possono essere sfruttate, manipolate. Possono solo essere cancellate. Questa fragilità e la loro forza.
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Belli, brutti, legati a un destino che li ha, per il momento, sottratti alla fine, stanno tutti dall’altra parte del guado, della riva del fiume. Respirano la brezza della malinconia, non cantano vittoriosi la loro grandezza. Silenziosi aspettano, mentre la sera distende su di loro il suo manto bruno.
Hanno una bellezza imperfetta. Non anelano all’assoluto. Non hanno in sé la violenza della sopraffazione. Lo stile li ha stremati ma non vinti. Le tracce del passato si leggono tra le crepe dei muri, oltre l’umidità della pioggia e il calore riarso del sole. Sono costruzioni, disegni che si materializzano davanti a noi, lasciandoci un ricordo struggente, come il profumo di un corpo, rimasto prigioniero nel buio della stanza. La nostalgia degli attimi che li hanno colti, il sapore delle loro superfici.
Questa imperfezione è generata dalla vita che li ha vissuti, usati, trasformati, amandoli o detestando, ma facendone in ogni caso il teatro delle sue imprese. Il tempo passa e corrode come l’acqua e il vento, la pelle delle cose. Lascia il segno, modifica il tratto, riempie gli spazi morti della scrittura dei luoghi. Il rapporto fecondo tra questi e la natura si è incrinato. Abbiamo cancellato la serenità ingenua e positiva che accompagnava il nostro fare. In questa incrinatura resta la possibilità di un cammino tortuoso che recuperi quanto di fragile e insicuro c’è al mondo per lasciarlo esistere. Luoghi dell’imperfezione accompagnati dall’ombra, intrisi del nostro essere mortali, lontani dalle feste e solenne della vittoria sul mondo.
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Camminare negli spazi sospesi del tempo, tra le brecce create dall’incuria dell’uomo, cercando di salvaguardare ogni minima cosa, anche insignificante, ogni traccia legata ai sentimenti di chi l’ha vissuta è forse l’unico modo per non soccombere alla distesa disumana di cemento che invade il mondo ogni giorno di più.
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